02 marzo 2017

IL SERPENTE “uroboro”

Gaspare FARDELLA
L’uroboro è un simbolo molto antico, presente in tutti i popoli e in tutte le epoche, e raffigura un serpente o un drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio, né fine, e che vive nutrendosi di sé stesso, mangiandosi appunto la propria coda (dal greco: oùrà = coda; boròs = divorante). 
Simbolicamente, è un animale all'apparenza immobile, ma in eterno movimento, e rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l'energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose, che ricominciano dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine.
Spogliata dal sovraccarico dei significati propri di ogni figura del mito e limitandoci a pensarla come ad una raffigurazione dell’eterno ritorno, l’im­magine spiega bene il meccanismo per cui il denaro nutre il potere e il potere alimenta il denaro, in un costante doppio scambio tra orifizi che trasmettono l’una sostanza all’altra. Sembrerebbe un meccanismo perfetto: il moto perpetuo, che - sappiamo bene dalla fisica - non esistere.
Ora, anche in politica, e non solo in fisica, qualunque sistema di scambio d’energia chiuso su sé stesso, autoreferen­ziale, è destinato a morire. L’energia e il nutrimento prodot­to sono inevitabilmente insufficienti a sostenere nel tempo il movimento del meccanismo e/o la vita dell’organismo.
Uroboro
In più, in politica, si ha a che fare con un organismo dalle necessità non costanti, ma crescenti; il suo appetito ha qualcosa di pazzesco: non conosce sazietà, ma cresce crescendo.
Di denaro e di potere, non ce n’è mai abbastanza.
Questa è la natura degli esseri umani - e, quindi, delle loro società - quando non si apprestano rimedi e non si pongono limitazioni.
È all’opera una forza che ha certamente radici in un’in­dole appropriatrice e sopraffattrice che costituisce il pro­blema essenziale d’ogni tipo di costruzione ordinata della vita sociale.
Il denaro o, meglio, l’uomo di denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento e la forza dell’arricchi­mento è l’arricchimento stesso: e, dunque, più si possiede, più si mira a possedere. 
La stessa ed identica cosa vale per il potere.
Basta ricordare la massima d’esperienza antropologica di Montesquieu, sulla naturale tendenza tirannica dell’essere umano, che quanto più è potente tanto più tende a tiranneggiare.
La vita sociale consiste nel contenimento di queste due forze, denaro e potere.
Sono forze disgregatrici poiché la lotta per il denaro divide le società, con un solco via via più profondo, tra ricchi e poveri; la lotta per il potere, a sua volta, tra potenti e impotenti.
La forza intrinseca di questa lotta porta alla concentrazione, sia dell’uno, il denaro, che dell’altro, il potere. Essa si estende nella cerchia dei già ricchi e già potenti, in lotta tra loro, ma solidali quando la loro ricchezza e il loro potere sono minacciati dagli esclusi dalla ricchezza e dal potere.
L’esigenza di accrescimento, tuttavia, non proviene sol­tanto da ragioni d’indole soggettiva.
È il sistema stesso del denaro-potere che ha bisogno di crescere costantemente.
La crescita è la condizione della fiducia e dell’esistere. La mera crescita è però una sorta di condanna, poiché non ammette sosta.
La sosta e, perfino, la “crescita lenta” equi­valgono all’inizio della corsa verso il fallimento, a meno che il denaro e il potere non si rimettano sempre di nuovo in corsa. Si tratta non di vivere, ma di sopravvivere a sé stes­si. 
In conclusione l’uroboro è un animale aggressivo, consuma risorse e potere, crea sempre più poveri e sempre più impotenti.
In virtù della sua forza espansiva, rastrella per tutta la terra e per tutti i popoli della terra quanto può servire a placa­re momentaneamente la sua fame.
Ma, soprattutto, l’uroboro è cieco: guarda solo le sue ter­ga e non si chiede in quale direzione i suoi appetiti porta­no il mondo in cui cerca di sopravvivere.
Non è in grado di avvertire i pericoli che minacciano la sopravvivenza del mondo e, nel mondo, lui stesso. Non è in grado di dar­si una direzione. È un animale nichilistico, perfettamente adeguato al tempo nichilista.
Ed è anche spietato, non per volontà propria ma, ancor peggio, per intrinseca necessità. 
Il processo è in corso da secoli e, da ultimo, ha preso velocità: motus in fine velocior.
Da principio si poteva non vedere o fare finta di non vedere; si poteva anche credere che si trattasse di episodi isolati.
Oggi, non più.
Gaspare Fardella




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